Se infatti oggi sia i critici, che il mercato dell’arte, che se vogliamo perfino il pubblico generico vedono l’arte come un’impresa principalmente fatta di attimi unici, e soprattutto di figure uniche, dove è quindi il nome, l’identità dell’artista ad attribuire uno speciale valore all’opera d’arte in questione, che sia pittorica o scultorea, non dobbiamo pensare che questa sia sempre stata l’ottica dominante. Per una lunghissima parte della Storia, la figura dell’artista e quella dell’artigiano, che ai nostri occhi appaiono così distinte, furono effettivamente sovrapposte, e all’unicità dell’opera si preferì, come criterio, la perizia con cui era eseguita. È chiaro come, in questa visione, la copia non solo non sia così condannabile, ma diventi addirittura un momento indispensabile della formazione dell’artista, un esercizio per acquisire la competenza e l’abilità del maestro da cui sta copiando. E infatti, nella storia delle copie d’autore, troviamo nomi che forse ci potevano sembrare insospettabili:
Michelangelo, per molti l’artista per antonomasia, crebbe artisticamente, da adolescente, alla corte di Lorenzo il Magnifico, copiando le statue classiche e le opere di Masaccio che la adornavano; una volta cresciuto, è perfino noto che scolpì, per un compratore appassionato di statue antiche, un Cupido che poi trattò con terre acide, vendendoglielo con successo come antichissimo;
Peter Paul Rubens, il famoso artista fiammingo, aveva una vera devozione per gli artisti del Rinascimento, ed era solito alternare ai propri dipinti delle copie delle opere che più amava; la stessa “Battaglia di Anghileri” di Leonardo da Vinci che possiamo contemplare oggi è in realtà una sua copia, dato che l’originale è andato irrimediabilmente perso;
Tiziano Vecellio, famoso pittore veneziano passato alla storia per l’uso dei colori come Michelangelo lo era per l’abilità nel disegno, fu autore di una copia di una famosa produzione di Raffaello, il “Ritratto di Giulio II”, ancor oggi esposta a Palazzo Pitti, a Firenze.